19 maggio 2009

Il ribelle: è ora di "ribellarsi"

Solo recentemente ho conosciuto (purtroppo solo come autore) Massimo Fini. Pungente e acutissimo giornalista/scrittore "ribelle". Mi riferisco non solo ad uno dei suoi illuminanti libri (Il ribelle dalla A alla Z), ma perchè con una coerenza rara, da anni scrive e pubblica su varie testate, articoli e approfondimenti sempre "contro". Non intendo per contro la volontà di criticare, attaccare, denigrare gratuitamente le realtà sociali che ci riguardano, ma la coraggiosa e coerente visione di un mondo che viaggia inconsapevole verso una fine quasi inevitabile... E' uno dei pochi "intellettuali" (nel senso più positivo del termine) che affronta apertamente gli abusi, le violenze, le assurdità che il moderno mondo "globalizzato" ci obbliga a vivere ed a "subire".



Così da oggi pubblicherò una sintesi di alcuni suoi pensieri tratti da un suo libro del 2006: il Ribelle dalla A alla Z, edito da Marsilio. Un "dizionario" che affronta tutte le più importanti tematiche dei nostri tempi con chiarezza, semplicità, e soprattutto, da un punto di vista che, anche se ogni giorno più evidente, mostra l'altra faccia della medaglia, quello che i regimi (italiani e non solo) non dicono o, peggio ancora, nascondono subdolamente, perchè per comprendere dove ci troviamo e dove stiamo andando (almeno politicamente, ecologicamente e socialmente) è necessario analizzare quello che ci sta, inconsapevolmente e senza possibilità di contestazione, accadendo e che sta determinando le nostre esistenze.
(la sintesi e quindi il "montaggio" dei brani tratti dal libro, sono di mia unica scelta e responsabilità.)

MASSIMO FINI, scrittore e giornalista, pubblica per «II Giorno», «La Nazione», «II Resto del Carlino» e «II Gazzettino». È autore di Il conformista (1990) e di due dissacranti rivalutazioni storiche: Nerone. Duemila anni di calunnie (1993), Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta (1996). Per Marsilio ha pubblicato Di[zion]arìo erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina (zooo2), Nietzsche. L'apolide dell'esistenza (2OO34), i saggi storico-filosofia La Ragione aveva Torto? (1985, 2005'), Elogio della guerra (1989, 2OO34), Il denaro «Sterco del demonio» (1998, 2OO34), ora disponibili in edizione tascabile, Il vizio oscuro dell'Occidente. Manifesto dell'Antimodernità (2002 e 2oo66) e Sudditi. Manifesto contro la Democrazia (20O43).
È inoltre autore, con Eduardo Fiorillo e Francesca Roveda, di Massimo Fini è Cyrano contro tutti i luoghi comuni (2005), che riprende la fortunata esperienza teatrale del Cyrano, se vi pare... dove compare anche nelle vesti di attore.

Il "relativista culturale"

Per il «relativista culturale» non esistono né sistemi, né morali, né religioni, né principi universali". Naturalmente, poiché non siamo fatti di ghiaccio, ma di sangue, di carne, di sensazioni, di emozioni e non osserviamo la realtà con la freddezza dell'entomologo e della sua lente, ma viviamo in società concrete, anche il «relativista» ha le sue preferenze, ma è consapevole che sono semplicemente le sue, non una verità oggettiva valida anche per gli altri o addirittura per tutti.
Per quanto mi riguarda, se l'aspirazione dell'essere umano è di raggiungere non dico la felicità, parola proibita che gli americani hanno avuto l'imprudenza di includere nella loro Dichiarazione di Indipendenza, ma una certa serenità, mi pare più astuta, quantomeno dal punto di vista psicologico e della tenuta nervosa, una società che ricerca l'equilibrio in ciò che c'è già e dove ci si accontenta di quello che si ha, piuttosto di una come la nostra dove tutto il meccanismo economico e produttivo e l'intero sistema spingono, con una coerenza ferrea e quasi omicida, «all'inseguimento inesausto di un futuro orgiastico, che pare sempre lì lì per essere colto, e che invece arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità dell'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo»,provocando così nell'individuo, nell'uomo concreto che questa società deve viverla, frustrazione, angoscia, anomia, nevrosi, depressione e, soprattutto, una formidabile perdita di senso.
Se non esiste una morale universale, né tantomeno la certezza di un Dio, ciò significa che il «relativista» è necessariamente un amorale o, peggio, un immorale, per nulla. Il fatto che rispetti i valori di culture diverse dalla sua, anche quando gli paiono aberranti, e finché rimangono all'interno di quelle culture e non pretendono di prevaricarne altre, non vuol dire che non ne abbia dei propri. Possono essere quelli dominanti nella società cui appartiene oppure, se questi valori non lo convincono, non lo riguardano, non sono i suoi, li sente eterodiretti o ipocriti o fasulli, si apre allora per lui la strada tracciata da Nietzsche in Al di là del bene e del male": si creerà da sé la propria tavola di valori. Ma questa posizione lungi dall'essere un cinico disimpegno o un'autorizzazione a fare ciò che più ci pare e piace è, al contrario, una tremenda e prometeica assunzione di responsabilità. Perché costui - e non la famiglia, la società, i vicini, le cattive compagnie o «n'importe que» - è individualmente e totalmente responsabile dei propri atti e se ne assume tutte le conseguenze davanti alla comunità in cui vive, senza esitazioni, senza piagnucolamenti, senza autocommiserazioni e autogiustificazioni. Senza scuse. Senza sconti, perché quello che ha assunto è un impegno con se stesso e verso se stesso. Questo tipo d'uomo è il Ribelle.
In tale ottica anche un criminale può essere un uomo morale, se rimane fedele ai codici che si è dato. Immorali sono invece quelle brave persone, quei puri gigli di campo che affettano pubblicamente di onorare i valori comuni alla loro società (magari considerandoli "universali"), cui sono soliti obbligare gli altri, scandalizzandosi e indignandosi se non lo fanno, e che poi li tradiscono quotidianamente sottobanco. Sono gli uomini dalla «doppia morale», una pubblica, buona per i gonzi che ci vogliono credere o per coloro che, senza essere gonzi, per un intimo sentimento di lealtà nei confronti dei propri concittadini, non intendevano violarla e una tacita, nascosta, e del tutto contraria, valida solo per loro e i loro simili che, sentendosi straordinariamente intelligenti, han capito, o credono di aver capito, come vanno le cose del mondo.
Di questi uomini sleali è piena la nostra società complessa dove i comportamenti degli individui sono difficilmente controllabili e verificabili e altrettanto facilmente mistificabili e che ha quindi completamente perduto alcuni valori, relativi anch'essi, naturalmente, ma indispensabili per poter vivere insieme, che erano invece fondamentali non solo fra i popoli «primitivi» (per i quali l'onta massima è «perdere la faccia»), ma anche presso ogni comunità ristretta, di ridotte dimensioni, semplice, come il villaggio preindustriale e premoderno, dove ognuno conosceva tutti ed era da tutti conosciuto e barare al gioco della vita era impossibile o molto difficile. Questi valori si possono riassumere in uno solo. Si chiama dignità.

Nessun commento: